UGO CARMENI | CONVERSAZIONE AL TEMPO DEL LOCKDOWN Intervista a cura di Nicola Bustreo Come artista e con una formazione da architetto, com’è cambiata la tua relazione con lo spazio percepito? Ultimamente insiste nella mia mente l’immagine che mi son fatto dello spazio così come descritto da Perec in Espèces d'espaces. Al centro vi è un grande vuoto, una sorta di assenza primordiale, attorno a cui gravitano i nostri spazi reali, la nostra vita e le nostre relazioni. Ora è come se questo vuoto centrale si fosse espanso comprimendo su una corona sempre più stretta e stressata quello che è lo spazio vitale. “Vivere - scrive l’autore - è passare da uno spazio all’altro senza farsi troppo male”. Quella che ci viene negata ora è proprio questa possibilità: o si inizia a cercare nuovi riferimenti o ci si fa male. Senza la possibilità di muoversi da un posto all’altro, viene meno il confronto naturale che si svolge nei luoghi pubblici e storpiata la percezione del nostro spazio privato. Il senso dunque del nostro intorno deve essere in qualche modo rivalutato. Se la domanda che ci viene posta è come districarsi in tale situazione, ci rendiamo presto conto che la risposta non è affatto scontata. Non ci è possibile fare un certo tipo di scelte ignorando la nostra componente sociale. E poi vi è una componente percettiva: la casa, il nostro spazio intimo e personale, in tale circostanza si ingigantisce. Se fino a poco tempo fa veniva vissuta nella dimensione dei metri quadrati, inizia ora ad essere percepita per centimetri, millimetri quadri. Più viviamo uno spazio da soli e per lungo tempo, più questo spazio ci risulta vuoto. Il punto di vista allora cambia necessariamente, si trovano nuovi riferimenti e si tende a concentrarsi sul microscopico. E alla fine ti rendi conto che anche il tuo mondo abituale ha ancora tanto da raccontarti ed è ancora in grado di meravigliarti. |
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Green, 105x70 cm, giclée print, aluminium panel, wax, 2014 |
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Lewis Carroll ne La caccia allo Snark riporta una mappa dell’oceano per definire il campo di azione del racconto: un semplice rettangolo che racchiude una porzione di pagina vuota. Ecco il senso di smarrimento che percepiamo ora, la mancanza di riferimenti. Se vogliamo orientarci e iniziare a combinare qualcosa, ritengo che in questa mappa dobbiamo cominciare a metterceli questi riferimenti, cercarli con la lente d’ingrandimento, se necessario disegnarci un punto anche o cercare una crepa sulla fibra della carta. Seppur la situazione di emergenza - si spera - finisca prima o poi, devono comunque essere creati nuovi codici di lettura del vivere. Come agisce l’artista in questa ricerca? Fermandosi e convertendo questo surplus di tempo indotto in spazio di riflessione, fase vitale di ogni processo creativo. Ho fissa nella mente un’immagine: l’allegoria della Prudenza, dipinta da un giovane Tiepolo a villa Zileri nel vicentino. La donna viene raffigurata mentre osserva il mondo dall’alto di una nuvola. Non lo fa, però, affacciandosi e guardando direttamente, bensì osservandolo attraverso uno specchio. Ossia guarda alle vicende umane attraverso un riflesso. E lo fa grazie a un oggetto, lo specchio, piano di rappresentazione, mimesis del mondo riflesso. E questo piano altro non è che lo spazio di lavoro dell’artista. Se vogliamo un esempio pittorico che sposi questa lettura, ma contemporaneo, mi viene in mente Rearview Mirror di Luc Tuymans, dove è l’osservatore stesso ad assumere il ruolo attivo di soggetto osservante. |
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InlandScape 02, 150x100 cm, giclée print, aluminium panel, wax, 2020 |
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Lo scorso novembre l’acqua alta travolse tragicamente Venezia. Tale situazione mi portò alla mente la tua fotografia del vaporetto della serie Flood, esposta da Ziva Kraus nel 2015. Ma tu, nella sovra-produzione di immagini che si generarono in quel momento devastante, mi dicesti che avevi avuto un rifiuto per la macchina fotografica. Mi chiedo allora se vivi qualche trauma altrettanto forte durante questa situazione generata dal virus. In realtà non mi interessa utilizzare il mezzo fotografico per documentare direttamente la gravità delle cose, ma piuttosto per rappresentare una visione interiore una volta digerite e assimilate. E la fotografia del vaporetto (Green, ndr.) esemplifica forse bene quel momento, offrendo un’immagine ribaltata di una Venezia vuota, assente, silenziosa, in cui tutto appare sottosopra, inondata di una luce verde che rimanda a Garcìa Lorca. Ora però col virus la situazione è diversa, si passa da un problema locale ad un evento di emergenza globale. Non lascia scampo, non si può evadere altrove. Questo status mentale mi porta a produrre idee più astratte, dove anche il colore perde la sua forza. Da qui nasce il progetto InlandScape - su cui sto lavorando grazie ad un tuo invito - una serie fotografica dedicata a una sorta di paesaggi che si generano dalla negazione del paesaggio stesso. Negli ultimi anni ti sei avvicinato al mondo delle sperimentazioni cinematografiche. Penso alla tua collaborazione con Ferzan Ozpetek alla Biennale dell’anno scorso e al tuo progetto The Stones of Venice. Questo aspetto del tuo lavoro sta proseguendo in questi mesi di lock-down? Mi sono messo in testa di girare un cortometraggio su quella che è la mia idea di Venezia, ora. Ma è prematuro parlarne, spero ci sarà modo di discuterne assieme quando ci avrò capito qualcosa di più anche io. |
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The Stones of Venice, enviromental site specific installation, Venice, 2019 |
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